Viviamo nell'epoca del troppo. Troppi stimoli, troppe notifiche, troppi contenuti che ci inseguono fino dentro i sogni. La distrazione non è più un momento, è diventata una condizione. Scrolliamo mentre camminiamo, ascoltiamo podcast mentre cuciniamo, rispondiamo a messaggi mentre parliamo con qualcuno. Come se il vuoto fosse diventato insopportabile.
Il vuoto è dove nascono le idee. Il silenzio è dove si sentono i pensieri più sottili.
Quando scriviamo con calma, quando leggiamo davvero, quando pensiamo senza fretta, stiamo compiendo un atto di resistenza. Non contro il mondo, ma contro la sua velocità. Non contro il progresso, ma contro l'ansia di non perderselo.
C'è una differenza tra essere informati ed essere distratti. Tra essere connessi ed essere dispersi. Tra vivere il presente e consumarlo.
Forse dovremmo imparare di nuovo a stare. Non fare, non produrre, non ottimizzare. STARE. Con un libro in mano, con uno sguardo dalla finestra, con un pensiero che non ha fretta di diventare post.
Il mondo non smette di girare se ci prendiamo cinque minuti di pausa o più dal rumore.
Questa Booksletter è il mio tentativo di rallentare. Di scegliere poche cose, ma scelte bene. E forse, tra queste righe, anche voi troverete un piccolo angolo di silenzio.
Foto di Kush Dwivedi su Unsplash
TRACCE DI LETTURA
Alba nel deserto di Waris Dirie (con Jeanne D’Haem; traduzione di Paola Bertante, edito da Garzanti)
Trovato per casualità grazie alla mia compagna che lo aveva acquistato tempo addietro. Ma sì, dai, lo leggo, penso. In ritardo di più di vent’anni da quando fu pubblicato. Mi ritrovo dentro la storia personale dell’autrice, nella sua Somalia, nelle sue ferite. Non lo consiglio di certo per una trama che vi stupirà, quanto invece per i gesti umani, per i temi trattati, per mondi che sono soltanto in apparenza molto lontani da noi.
UNA BREVE LETTERA IMMAGINARIA
A Sibilla Aleramo
Cara Sibilla,
ogni tanto torno a Una donna. Lo riapro come si riapre una ferita che non si rimargina mai del tutto. Quella fuga, quel coraggio che costa tutto. Il figlio lasciato indietro come un pezzo di cuore strappato.
Mi chiedo quanto ti sia costato scrivere quelle pagine. Quanto dolore ci sia voluto per trasformare la tua vita in letteratura, la tua sofferenza in testimonianza.
Oggi le donne parlano di libertà sui social, nei podcast, nelle conferenze. Ma la libertà – quella che hai conquistato tu – mi pare di un peso specifico differente. Perché costa tantissimo tale libertà. Costa relazioni, costa sicurezze, costa il sonno di molte notti.
Eri in anticipo di un secolo, Sibilla. Sapevi già che essere donna significava scegliere sempre: tra sé stesse e gli altri, tra i propri sogni e le aspettative del mondo, tra restare e andare. Il tuo coraggio non era eroico, era disperato. Ed è per questo che ancora oggi fa paura.
Non scriverei Per sempre tuo nemmeno a te dopo Tolstoj, ma per un motivo diverso: perché so che avresti riso di questa retorica. Tu che hai scelto di appartenere prima di tutto a te stessa.
Perciò solo Morgan
STRAPPI DI DIARIO (senza fare nomi)
9 agosto 2012 | con uno scrittore
Mi ha invitato al suo tavolo durante una cena editoriale. Primo errore: accettare (sapevo già qualcosa del personaggio). Secondo errore: sedermi accanto a lui. Terzo errore: non alzarmi dopo dieci minuti circa. Ha iniziato spiegandomi perché Dostoevskij fosse sopravvalutato («troppo emotivo, poco cerebrale»), ha continuato illustrandomi le pecche stilistiche di Calvino («leggibile, purtroppo») e ha concluso raccontandomi del suo ultimo romanzo: «È di una complessità tale che temo non troverà lettori all'altezza». Quando gli ho chiesto di cosa parlasse, mi ha guardato con pietà: «Non si può riassumere l'arte. Come spiegare una sinfonia a un sordo». Serio, non ironico. Alla fine della serata mi ha dato il suo libro con dedica: «A Morgan, che un giorno forse capirà le vette».
I FARI DELLA LETTERATURA
SCRIVERE A MANO È UN GESTO DIMENTICATO
La mia penna preferita è una Montblanc, anche se non la uso mai. Me l'aveva regalata un amico che oggi non c'è più.
Scrivere a mano, anche semplicemente con una Bic, è lentezza. Pensare mentre la parola prende forma sulla carta, accorgersi che il cervello va più veloce della mano e quindi rallentare, scegliere, filtrare. Al computer scrivo quello che penso. A mano penso quello che scrivo.
C'è qualcosa di fisico nel rapporto tra penna e foglio che la tastiera non può replicare. Il graffio della punta, la resistenza della carta, il gesto che si fa corpo. Quando scrivo a mano sento il peso delle parole.
E poi c'è l'errore. Al computer cancelli e riscrivi, la pagina resta pulita, perfetta. A mano l'errore rimane: una parola barrata, una freccia che sposta una frase, una macchia d'inchiostro. Il foglio racconta la storia del pensiero, non solo il risultato.
Gli studi dicono che chi scrive a mano memorizza meglio, elabora di più, connette concetti diversi. Ma io non scrivo a mano per la scienza. A volte lo faccio perché in un mondo che corre sempre più veloce, quel gesto mi riporta a casa. A casa da me stesso, dal mio ritmo, dal tempo che serve per pensare davvero.
Se vi piace quanto state leggendo, che ne dite di mettere un cuoricino alla fine? Grazie!
Foto di Pixabay
UN PENSIERO CHE SCAVA
La malattia è il lato notturno della vita, una cittadinanza più onerosa. Tutti quelli che nascono hanno una doppia cittadinanza, nel regno dello star bene e in quello dello star male. Preferiremmo tutti servirci soltanto del passaporto buono, ma prima o poi ognuno viene costretto, almeno per un certo periodo, a riconoscersi cittadino di quell’altro paese.
[Sontag. Una vita di Benjamin Moser, edito da Rizzoli]
UN LINK PER…
Sebastião Salgado: fotografare il Mondo di Giuseppe Mendicino
LE PAROLE CHE DOVREBBERO RITROVARSI
Mostrare. Una volta significava far vedere qualcosa di prezioso, nascosto o intimo. Si mostrava un tesoro, un segreto, una ferita. C'era pudore nel gesto e quindi valore. Oggi mostriamo tutto. Il piatto che stiamo mangiando, il tramonto che stiamo guardando, l'umore che stiamo vivendo. Mostrare è diventato un riflesso automatico: vedo, fotografo, condivido. Come se l'esperienza non fosse completa senza testimoni. Ma nel mostrarsi continuo si perde il senso della scoperta. Se tutto è in vetrina, niente è davvero speciale. Se ogni momento è documentato, quale momento vale davvero la pena di essere vissuto?
Forse dovremmo tornare a scegliere cosa mostrare. Non per pudore morale, ma per dare peso alle cose. Per ricordarci che tenere qualcosa per sé non è chiusura, è cura. È proteggere il valore di un'esperienza dal rumore del mondo. C'è una bellezza nel non detto, nel non mostrato. Nel sorriso che si tiene dentro, nel libro che si legge senza fotografare la copertina, nel pensiero che resta pensiero. Mostrare dovrebbe tornare ad essere una scelta, non un'abitudine. Un dono, non un dovere.
Vedo, fotografo, condivido, capita anche a me ovviamente, ma mi piace sempre più vedere, fotografare solo qualche volta, non condividere.
Foto di Dawid Sokołowski su Unsplash
MOMENTI DI GENTILEZZA
Gli anni scivolano via più veloce di quanto vorremmo ammettere. Guardando indietro, sembra ieri che avevamo progetti diversi, energie diverse, certezze diverse. Il tempo ha questa capacità crudele di mostrarci quanto eravamo ingenui e quanto lo siamo ancora. Viviamo in una società che ci condiziona a correre sempre, a produrre sempre, a essere sempre qualcosa di più di quello che siamo. Jiddu Krishnamurti aveva ragione quando diceva che il condizionamento è distruttivo, ha un'azione disintegrante; ma la mente superficiale non può vedere la verità di questo, chiosava.
Ma poi succede qualcosa. Apri un libro. Una pagina, una frase, un pensiero che ti ferma. E capisci che il tempo che passa non è solo perdita, è anche accumulo. Di esperienze, di comprensione, di quella saggezza sottile che si deposita solo con gli anni e spesso senza che noi ci si accorga di tale accumulo. La lettura ci insegna che ogni storia ha un senso, anche quando non lo vediamo subito. Che dietro ogni fallimento c'è spesso il seme di qualcosa di nuovo. Che le vite più interessanti sono quelle che hanno attraversato il buio per arrivare alla luce.
Come diceva Goethe, le cose migliori si ottengono solo con il massimo dell'impegno. Non è consolazione da quattro soldi, è verità pratica. Chi legge lo sa: ogni libro richiede tempo, attenzione, fatica. Ma quella fatica si trasforma in ricchezza interiore.
Allora sì, il futuro fa paura. I problemi sono reali, le difficoltà concrete. Un vecchio filosofo latino sosteneva: Anche se il timore avrà sempre più argomenti, tu scegli la speranza. Non per ingenuità, ma per forza. Perché la speranza non è attesa passiva, è energia che si muove. Ogni libro che leggiamo è un atto di speranza. Ogni pagina girata è fiducia nel fatto che qualcosa può ancora sorprenderci, insegnarci, cambiarci.
FACCIO COSE, VEDO GENTE
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Ci pensavo di recente, Sul Romanzo ha compiuto sedici anni (per chi non lo sapesse, fondai il blog di Sul Romanzo nell’aprile del 2009, poi il progetto editoriale si è sviluppato nel corso del tempo). Quasi non mi sembra vero, sedici anni. Mi sto occupando personalmente della pagina Facebook e mi diverto a nutrirla con qualche pensiero nelle mie pause lavorative. Se vi va di seguirla.
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